Dai nuclei galattici attivi alle onde gravitazionali, continuiamo a scoprire i metodi più moderni per scovare i buchi neri nell’Universo
Se i buchi neri sono “neri”, come facciamo a vederli nel cosmo? Il modo migliore per studiare un corpo celeste è sicuramente studiarne l’emissione luminosa, ma nel caso dei buchi neri non possiamo seguire questa strada. Esistono però sofisticate tecniche per capire dove si trova un buco nero nella Via Lattea o in altre galassie e di studiarne le caratteristiche. Nella prima parte abbiamo discusso due fra i principali metodi per “vedere” i buchi neri. Vediamo ora le altre tecniche osservative sviluppate che negli ultimi anni ci hanno permesso di studiare questi strani inquilini dell’Universo.
Super buchi neri
Fra le diverse tipologie di buchi neri ci sono i cosiddetti buchi neri supermassivi. Come suggerisce il nome, hanno masse che vanno da alcune centinaia di migliaia fino a diversi miliardi di masse solari. Questi “super buchi neri” si trovano nelle regioni centrali di molte galassie, fra cui la Via Lattea. Il buco nero nella nostra Galassia è dormiente, ma in molti casi i buchi neri supermassivi possono essere attivi. Ciò significa che stanno inghiottendo materia e in seguito a questa attività si genera una intensa emissione luminosa. Grazie all’attività del buco nero, la galassia può diventare estremamente più luminosa e essere visibile da enormi distanze.
In questi casi si parla di galassie attive, o meglio di nuclei galattici attivi (AGN in inglese, da Active Galactic Nucleus). Fra le diverse tipologie di nuclei galattici attivi troviamo i quasar, sorgenti galattiche molto brillanti dall’aspetto puntiforme. Altri esempi sono le galassie di Seyfert, i blazar e le radiogalassie. Queste ultime possiedono enormi lobi luminosi dovuti a giganteschi getti di materia che si muove a velocità relativistiche. Una famosa radiogalassia è Hercules A, a 2 miliardi di anni luce. Nel suo centro abbiamo osservato un super-buco nero da 2 miliardi e mezzo di masse solari.
Nel 2022 un team coordinato da Martijn Oei dell’Università di Leida ha identificato una radiogalassia da record, chiamata Alcyoneus. I suoi lobi radio si estendono nello spazio per una distanza record di circa 15 milioni di anni luce.
Inizialmente le diverse tipologie di galassie attive erano considerate classi differenti di corpi celesti, ma le osservazioni hanno smentito questa ipotesi. Secondo i modelli teorici infatti i nuclei galattici attivi sono una stessa tipologia di oggetto visto sotto angolazioni diverse. Quando ad esempio sono visti di taglio, i nuclei galattici attivi mostrano in tutta la loro magnificenza i getti relativistici e la loro emissione luminosa. E’ questo il caso delle radiogalassie. Se invece sono visti di fronte il loro aspetto è diverso. Non vediamo i getti che si estendono nello spazio, e il nucleo galattico attivo appare puntiforme, come accade nel caso dei quasar. Osservare quindi un nucleo galattico attivo ci suggerisce che in quella galassia è presente un buco nero supermassivo. Studiando con attenzione l’emissione luminosa è anche possibile risalire alla massa del buco nero, anche se la galassia dista da noi milioni di anni luce.
Divorati dal buco nero
Sappiamo che i buchi neri possiedono un campo gravitazionale così intenso da catturare nubi, stelle o pianeti si trovino a passare nei dintorni. Tuttavia questi malcapitati corpi celesti non finiscono direttamente inghiottiti ma vengono prima fatti a pezzi dalle forze di marea esercitate dal buco nero stesso. Per capire come questo possa accadere immaginiamo di osservare una stella che viene catturata da un buco nero. La forza di attrazione gravitazionale è tanto più intensa quando minore è la distanza fra i due corpi. Questo fenomeno viene chiamato forza di marea. Sotto l’azione delle forze di marea la stella inizierà così a essere deformata e ad allungarsi. E’ lo stesso meccanismo che governa le maree terrestri, prodotte dall’attrazione lunare e che modificano la forma della Terra e la distribuzione delle masse d’acqua.
Nel caso dei buchi neri la situazione è più estrema. Le porzioni di stella più vicine al buco nero subiscono una forza maggiore rispetto a quelle sulla “faccia” opposta che si trovano più lontane. Le forze mareali aumenteranno man mano che la stella si avvicina al buco nero. A un certo punto, saranno così intense da ridurre in brandelli la stella, i cui frammenti andranno a formare un disco di accrescimento intorno al buco nero.
Questo scenario catastrofico viene chiamato Tidal Disruption Event (TDE), ovvero evento di distruzione mareale. Grazie ai moderni telescopi a terra e nello spazio abbiamo osservato diversi TDE, che rappresentano la distruzione di stelle o pianeti catturati da buchi neri. Le osservazioni possono essere condotte in diverse finestre dello spettro elettromagnetico, come quella della luce visibile o dei raggi X. Solitamente un TDE è associato a un aumento di luminosità prodotto dal disco di accrescimento associato alla distruzione della stella. I TDE osservati finora sono associati ai buchi neri supermassivi. Ma è possibile che fenomeni simili siano prodotti da buchi neri di taglia stellare, sebbene di tratti di un fenomeno che potrebbe essere più raro.
Un esempio di TDE è AT2022dsb, osservato dal telescopio spaziale Hubble il 1 marzo 2022 dalla All-Sky Automated Survey for Supernovae (ASAS-SN), che monitora il cielo alla ricerca di segnali transienti improvvisi. L’evento ha avuto luogo nella galassia ESO 583-G004 a 300 milioni di anni luce da noi.
La sinfonia dei buchi neri
Se non possiamo vederli con i telescopi, possiamo tentare di “ascoltare” la loro presenza. Naturalmente non tramite le onde sonore, dal momento che il suono non si propaga nello spazio, ma grazie alle onde gravitazionali. Queste onde sono perturbazioni nello spaziotempo che si propagano alla velocità della luce. Grazie ad esse disponiamo di informazioni complementari rispetto alla luce visibile e alle altre forme di radiazione elettromagnetica. Scoperte nel 2015, sono una conseguenza della teoria della relatività di Einstein.
Quando due buchi neri iniziano a spiraleggiare uno intorno all’altro emettono onde gravitazionali. Continuando a emettere onde gravitazionali e a perdere energia il sistema binario si contrae, fino a quando i buchi neri si scontrano. Il risultato dello scontro e fusione è un buco nero più massivo, che inizialmente fa vibrare lo spaziotempo come se fosse una campana. Questa ultima fase si chiama infatti ringdown. L’insieme di spiraleggiamento, fusione e ringdown prende il nome di coalescenza ed è osservabile da appositi rivelatori come Advanced LIGO e Virgo. Le onde gravitazionali permettono di misurare le proprietà dei buchi neri, come la loro massa e la loro rotazione, caratterizzata da un parametro detto spin.
Il primo segnale di onde gravitazionali, rivelato il 14 settembre 2015 è stato prodotto dallo sconto di due buchi neri da circa 30 masse solari. Con le onde gravitazionali possiamo “vedere” buchi neri di masse inaccessibili ai telescopi tradizionali, che ci mostrano buchi neri fino a circa 20 masse solari. Grazie alle onde gravitazionali abbiamo potuto rivelare scontri fra buchi neri superiori a 100 masse solari. Nell’evento GW190521 due buchi neri da 66 e 85 masse solari si sono fusi per formare un enorme buco nero da 142 masse solari. Questo evento ha inoltre fornito una importante indicazione dell’esistenza dei cosiddetti buchi neri di taglia intermedia, sulla cui natura ci sono ancora molti misteri.
Si tratterebbe infatti di buchi neri di massa superiore alle 100 masse solari ma inferiore a quella dei buchi neri supermassivi. Una delle indicazioni osservative della loro presenza sono le sorgenti di raggi X ultraluminose. Secondo alcuni modelli teorici queste sorgenti potrebbero essere legate a sistemi binari o a buchi neri di massa intermedia.
All’orizzonte degli eventi
Nell’aprile 2019 ha fatto grande scalpore la pubblicazione della prima “fotografia” di un buco nero. E’ il buco nero supermassivo al centro di M87, una gigantesca galassia ellittica a circa 53 milioni di anni luce da noi nella costellazione della Vergine. Ma cosa significa “fotografare” un buco nero? Per capirlo dobbiamo ricordarci come funziona l’Event Horizon Telescope (ETH), il progetto che ha permesso di realizzare la celebre immagine.
A differenza di quando possa far pensare il nome, ETH non è un singolo telescopio installato in qualche punto della Terra. Si tratta invece di una rete di radiotelescopi installati in diverse parti del pianeta, che possono osservare in maniera combinata sfruttando il principio dell’interferometria, che permette di combinare i dati raccolti da due o più telescopi per ottenere un’immagine ad altissima risoluzione. Osservando le immagini ottenute da ETH si vede in realtà l’ombra del buco nero, circondata dall’emissione luminosa prodotta dalla materia in accrescimento intorno al buco nero. Con EHT si possono raggiungere risoluzioni angolari da record, perché le dimensioni angolari di circa 15 milionesimi di secondo d’arco, un numero piccolissimo confrontato con le dimensioni della galassia intera, pari a circa 45 secondi d’arco. In altre parole, circa 3 milioni di volte più piccola.
Grazie a questo approccio, gli scienziati di ETH sono riusciti a ottenere anche l’immagine di Sgr A*, il buco nero al centro della nostra Galassia, resa pubblica nel maggio 2022. Sfruttando l’enorme risoluzione angolare di ETH, gli scienziati hanno indagato anche altre sorgenti, studiando in dettaglio ad esempio la struttura di alcuni blazar e i getti prodotti dal buco nero nella galassia Centaurus A, annunciati nel luglio 2021.
Dai dischi di accrescimento alle onde gravitazionali, abbiamo discusso come oggi possiamo vedere e studiare i buchi neri. Naturalmente con gli strumenti del futuro potremo escogitare tecniche ancora più sofisticate per studiare a fondo questi incredibili mostri cosmici e capire il loro ruolo nell’Universo, dalla fisica delle stelle all’evoluzione delle galassie.