Sono fra i corpi celesti più affascinanti e misteriosi del cosmo. Nemmeno la luce riesce a sfuggire al loro campo gravitazionale e perciò ci appaiono “neri”. Ma se non emettono luce, come facciamo a sapere che esistono?
I buchi neri sono fra gli oggetti più affascinanti e misteriosi di tutto il cielo. Sono corpi celesti estremi, dotati di campi gravitazionali così intensi da catturare e distruggere tutto ciò che passa nelle loro vicinanze. Nemmeno la luce può sfuggire alla morsa fatale di questi mostri cosmici, che quindi ci appaiono appunto neri. Eppure, anche se non emettono luce direttamente, esistono tecniche osservative capaci di svelarci chiaramente la presenza di buchi neri nella Via Lattea o persino in galassie distanti miliardi di anni luce da noi. Vediamo come.
Pac-Man cosmici
Quando pensiamo ai buchi neri ci immaginiamo dei veri e propri mostri galattici che distruggono tutto quello che incontrano e lo inghiottono. Nell’immaginario di molte persone assomigliano a dei giganteschi Pac-Man che vanno a spasso per la Galassia a mangiare stelle e pianeti. La situazione non è così drammatica, ma è pur vero che un pianeta o una stella che si trova a passare troppo vicino a un buco nero potrebbe avere il destino segnato. Passando a distanze troppo ravvicinate si rischia di venire catturati dal campo gravitazionale del buco nero e di essere fatti a pezzi dalle intense forze mareali esercitate dal mostro cosmico. Eppure è proprio grazie al loro straordinario campo gravitazionale che possiamo accorgerci della loro esistenza.
Mostri nell’ombra
Prima di capire come possiamo vederli, ricordiamo brevemente cosa sono i buchi neri. Nonostante il nome, non sono dei veri e propri “buchi” nello spazio, almeno non nel senso tradizionale. Sono piuttosto dei corpi celesti dotati di un campo gravitazionale altissimo da cui nulla può sfuggire.
Se pensiamo al campo gravitazionale terrestre, sappiamo che un razzo può staccarsi da terra e andare nello spazio se possiede una velocità iniziale superiore a un certo valore di soglia, detto velocità di fuga. Nel caso della Terra la velocità di fuga è 11,2 chilometri al secondo e nel caso di Giove è quasi 60 chilometri al secondo. Nel caso di un buco nero la velocità di fuga è superiore alla velocità della luce. Di conseguenza, se un’astronave si trovasse molto vicina a un buco nero ed emettesse un fascio luminoso, da lontano noi non potremmo vederlo.
Per essere più precisi, molto vicino significa entro una distanza ben precisa che possiamo calcolare e che definisce il cosiddetto “orizzonte degli eventi”. Tutto ciò che si trova entro l’orizzonte degli eventi non può sfuggire al buco nero. Dall’interno dell’orizzonte degli eventi non è quindi possibile inviare un segnale luminoso e sperare che venga captato all’esterno. In altre parole, trovarsi all’interno dell’orizzonte degli eventi significa essere sconnessi dal resto dell’Universo. Nessun segnale può uscire e ciò che si trova all’interno non può influenzare ciò che si trova all’esterno.
Com’è fatto un buco nero?
Per capire come funziona un buco nero dobbiamo partire dalla teoria della Relatività Generale pubblicata da Einstein nel 1916, che ha superato la concezione classica della gravitazione universale di Newton e che ancora oggi costituisce la descrizione più corretta della gravità. Secondo la relatività generale, un corpo dotato di massa è capace di curvare lo spaziotempo intorno a sè, e tutto ciò che transita in quella regione di spazio “sente” questa curvatura. In assenza di masse lo spaziotempo è piatto e la traiettoria dei corpi sarà una linea retta, mentre nei pressi di corpi massivi, come stelle, pianeti o buchi neri, le traiettorie diventeranno curve.
Anche la luce, che secondo la teoria della gravitazione di Newton procedeva in linea retta, secondo Einstein può seguire traiettorie curve. Sembra un fenomeno strano e diverso da quello che vediamo nella vita di tutti i giorni, ma non è così. Per i corpi celesti come il Sole e la Terra l’effetto è piccolissimo, ma è misurabile sperimentalmente, come dimostrato nel 1919 durante un’eclisse di Sole. A ulteriore conferma di questo fenomeno oggi possiamo osservare con i telescopi le immagini di lontane galassie distorte dalla gravità. In astrofisica chiamiamo questi fenomeni lenti gravitazionali.
Nel caso dei buchi neri questa situazione è portata all’estremo, perchè la curvatura dello spaziotempo è così alta da formare una specie di “imbuto” spaziotemporale in cui tutto cade. Questa descrizione dello spaziotempo associata alla presenza di una massa a simmetria sferica, fu scoperta nel 1916 dal fisico Karl Schwarschild a partire dalle equazioni di Einstein della relatività generale. In questo senso, la descrizione matematica, detta metrica, di Schwarzschild assomiglia a un “buco” nel tessuto quadridimensionale dello spaziotempo.
Successivamente altri scienziati si dedicarono allo studio di questi oggetti. Nel 1939 Robert Oppenheimer mise in relazione i buchi neri questi oggetti con il collasso gravitazionale che si verifica al termine dell’evoluzione delle stelle di grande massa. Nel 1963 il matematico neozelandese Roy Kerr superò la descrizione di Schwarzschild, basata su una massa immobile. Nella metrica di Kerr si assume infatti che il corpo ruoti su sè stesso, un’ipotesi più realistica per descrivere un corpo celeste come una stella oppure un buco nero. In quegli anni però nessuno ancora usava il termine “buco nero”. Questo vocabolo fu coniato due anni dopo, nel 1965, dal fisico americano John Wheeler.
Il primo buco nero
Negli anni Sessanta non solo abbiamo consolidato la nostra conoscenza teorica dei buchi neri, ma ne abbiamo confermato l’esistenza dal punto di vista osservativo. Nel 1964 i primi rivelatori di raggi X montati su razzo rivelarono una serie di sorgenti cosmiche di alta energia, e fra di esse una nella costellazione del Cigno, chiamata Cygnus X-1. Furono tuttavia necessari alcuni anni per rendersi conto che l’emissione di Cygnus X-1 è associata a un buco nero.
Nel 1971 fu possibile rivelare l’emissione radio associata a quella sorgente e, grazie alla risoluzione angolare dei radiotelescopi, capire che la sorgente si trova molto vicina alla stella HDE226868, una supergigante blu con un diametro venti volte superiore a quello del Sole. Nonostante la sua grande massa e luminosità, questa stella a circa 7000 anni luce da noi non è sufficientemente luminosa da emettere i raggi X osservati da Cygnus X-1. Ciò significava che la stella doveva avere un compagno invisibile. Grazie all’osservazione dello spettro della stella fu possibile rendersi conto della presenza dell’effetto Doppler, indicazione che la stella si muoveva intorno al misterioso compagno invisibile.
Dallo studio dell’effetto Doppler fu così possibile stimare una massa di circa 15 masse solari, un valore che nel 2021 è stato migliorato e che ora si attesta su circa 21 masse solari. Le misure mostravano che eravamo di fronte a una tipologia di corpi celesti decisamente strani, estremamente massicci e che non emettavano luce. Un identikit perfetto per quei buchi neri che fino a poco prima erano considerati oggetti del tutto teorici.
Attenti al disco
Pur non emettendo direttamente luce, possiamo renderci conto della presenza di Cygnus X-1 grazie a una forte emissione di raggi X proveniente dalle vicinanze di una stella supergigante blu. Per spiegare queste osservazioni, i modelli teorici ipotizzano che gli strati più esterni della supergigante siano risucchiati dalla gravità del buco nero e vadano a formare un disco di materia, detto disco di accrescimento.
Per via dell’attrito viscoso interno al disco, il gas si riscalda fino a temperature di milioni di gradi emettendo così raggi X. La presenza dei dischi è il metodo principale per scovare la presenza dei buchi neri come Cygnus X-1, detti di taglia stellare, prodotti dall’evoluzione delle stelle di grande massa che terminano la loro vita come supernovae. Una volta determinata la presenza dell’emissione X, è possibile studiare ad esempio il moto della stella compagna, come nel caso di HDE226868, e arrivare così a “pesare” il buco nero.
Danze stellari
Non sempre i dischi di accrescimento sono visibili intorno a un buco nero. In questo caso possiamo sfruttare un metodo diverso, che si basa sullo studio di come si muovono i corpi celesti più vicini al buco nero. Negli anni Ottanta il fisico americano Charles Townes si accorse che un gruppo di nubi gassose si muovono intorno alla sorgente radio Sagittarius A*, che si trova in corrispondenza del centro della Via Lattea, come attratte da un centro di gravità invisibile.
Le osservazioni furono perfezionate a partire dagli anni Novanta, principalmente da due gruppi di ricerca, il primo coordinato da Reinhard Genzel dell’Istituto Max Planck per la fisica extraterrestre e dell’Università di Berkeley e il secondo da Andrea Ghez dell’Università della California a Los Angeles. Il lavoro dei due gruppi era di tracciare il moto delle stelle che si trovano più vicine a Sagittarius A*. Per farlo è necessario osservare il cielo alle lunghezze d’onda dell’infrarosso, dal momento che questo tipo di radiazione non viene assorbito dalle nubi che si trovano nel piano Galattico.
Da queste osservazioni fu possibile determinare la presenza di un corpo invisibile di almeno 4 milioni di masse solari a circa 26 mila anni luce da noi. L’unico possible corpo celeste con queste caratteristiche è un buco nero supermassiccio. Per questi studi sul buco nero al centro della galassia Ghez e Genzel furono insigniti del Premio Nobel per la Fisica nel 2020, condividendolo con il fisico teorico Roger Penrose.
Cygnus X-1 e il buco nero al centro della Via Lattea ci hanno mostrato due metodi osservativi per scoprire e “vedere” i buchi neri. Ma nell’astrofisica moderna esistono altre tecnologie capaci di mostrarci la presenza di questi curiosi corpi celesti. Per scoprirlo, andate a leggere la seconda parte!